lunedì 9 gennaio 2017

Il mio prossimo romanzo? Un Regency!

Ebbene sì. In attesa di Alex (chi è Alex?) sono di nuovo al lavoro, che sia malata di scrittura?
Le feste di fine d'anno sono appena terminate ed eccomi a incominciare una nuova storia. E che io sia dannata, è un altro storico. Adoro scrivere gli storici, ma se fossi più furba rimarrei sul contemporaneo che oggi va di più. Ma io furba non sono, quindi storico sarà.
È ambientato nella Londra del 1821. Sì, in un periodo che noi definiamo ancora regency, ma che in realtà aveva già visto la fine della Reggenza (quel simpaticone del Reggente era salito al trono nel 1820 come George IV.)
Il mio lui si chiama Sebastian Cumberlane, visconte di Stafford; la mia lei Madeline MacColey. Le loro strade si incrociano dopo dieci anni e Madeline vuole vendetta...

Yours Truly
                 Viviana 





mercoledì 14 dicembre 2016

E INFINE LA BESTIA INCONTRÒ BELLA

La mia bestia è sugli store!

È ora che io cominci a tremare. Piacerà, non piacerà? 😛
A me è piaciuto un sacco scrivere questa favola moderna ispirata a La Bella e la Bestia. E lui, la Bestia, mi ha fatta innamorare (il giocatore di hockey cui mi sono ispirata si chiama Patrick Sharp, e sì, è uno pazzesco). 
Sospirone.
In ogni caso, ecco la sinossi del romanzo e l'incipit nel quale introduco i due protagonisti, Ray, la Bestia 😅, e Bella, la Bella. 😁
Lasciate i vostri commenti! 
Un abbraccio

                                                 Yours truly Viviana
                                                                                                                     

LA SINOSSI
Avviso ai possibili lettori: questo è un romance, ovvero un romanzo rosa, e come tale può giovare altamente alla vostra salute. 

Nella sua nuova commedia romantica Viviana Giorgi ci riporta a Hope, Wyoming – lo stesso villaggio di Tutta colpa del vento e di un cowboy dagli occhi verdi – che diventa così lo sfondo ideale per un omaggio ironico e sensuale a La Bella e La Bestia, la sua fiaba preferita.
Ray predatore Raider, attaccante di punta degli Ice Breakers di Denver, è un uomo arrabbiato, più furioso di una bestia feroce chiusa in gabbia. E non che non ne abbia ragione. In un assurdo incidente automobilistico non solo si è fracassato un ginocchio, cosa che non gli permetterà mai più di stringere un bastone da hockey, ma ha pure investito un bambino. Il piccolo giace ora in coma in un letto di ospedale e lui darebbe anche l’altro ginocchio perché si risvegliasse…
Bella Satton scrive di moda sulle pagine del “Tribune” di Denver, ma non ne può più di abiti e stilisti. Così, quando il direttore le offre di prendere parte alla misteriosa Operazione Grande Fratello, lei accetta senza pensarci troppo: in un periodo in cui la privacy di tutti è minacciata da un onniveggente occhio digitale, Bella dovrà letteralmente sparire per un mese e dimostrare così che chiunque può trasformarsi in un’ombra invisibile. Ci riuscirà?

Viviana Giorgi scrive come noi respiriamo e i suoi romanzi sono un’oasi fresca nelle nostre vite caotiche, senza per questo diventare storielle da poco. Niente affatto! Sono un puzzle in cui ogni elemento s’incastra alla perfezione con gli altri, dimostrandoci una volta di più che l’autrice ha in pugno le sue storie e le nostre menti.” Babette Brown (Babette Brown legge per voi - GRAZIE BABETTE!)


Il romanzo, di circa 360 pagine, è scaricabile da tutti gli store on line. 


E INFINE LA BESTIA INCONTRÒ BELLA 
L'INCIPIT 

15 ottobre 2015
Denver
 
I tacchi di Bella risuonavano impertinenti sul corridoio di finto marmo. Dodici centimetri. Semplicemente un altro strumento per non sentirsi persa, e non solo fisicamente, in un mondo di gargantua. Temibili, paurosi gargantua.
Per Bella riuscire a fissare il prossimo negli occhi – quasi negli occhi in caso di superamento della barriera dei 180 centimetri – era una necessità e spesso ci riusciva solo grazie alle Jimmy Choo o alle Manolo, un fringe benefit che la sua posizione di responsabile della moda del Denver Tribune le assicurava. Gli stilisti, compresi Choo e Manolo, la omaggiavano delle loro ultime creazioni? Lei certo non le rifiutava.
Come ogni mattina alle nove si infilò nell’ascensore più per darsi una controllatina allo specchio che per risparmiarsi la rampa di scale che la separava dall’ultimo piano, quello della direzione.
Sì, era tutto a posto, camicetta di seta bianca e gonna nera, più le Jimmy Choo di vernice rossa da togliere il fiato. Capelli castani appena ondulati sciolti sulle spalle, perle alle orecchie e al collo, un po’ di mascara sulle ciglia a evidenziare i suoi occhi verdi, e labbra più rosse del diavolo, in perfetta nuance con le Jimmy Choo. Il solito travestimento, insomma, che l’avrebbe messa al sicuro da ogni tentativo dei suoi colleghi di irrompere nella sua vita.
Branco di animali.
E che la chiamassero pure Miss Algida o Ghiacciolo alla moda o, ancora, 32, sottintendendo Fahrenheit (ovvero il punto di congelamento dell’acqua), o Italian Job – lavoretto italiano sottintendendo qualcosa di più volgare, la cosa non la toccava per nulla. Forse solo un pochino, ma se ne infischiava.
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono portando sino a lei il vocio dei suoi colleghi, probabilmente intenti a bere caffè e a rimpinzarsi di ciambelle. Dio! Sembrava che non vivessero che per i carboidrati, quando lei…
Una sola ciambella – non che non ne avesse una voglia sconfinata e forse sarebbe ricaduta nel tunnel di Hänsel e Gretel, come lo chiamava lei. No, meglio neanche sniffarli i carboidrati se voleva che il suo fisico, che un tempo lei trattava così male, rimanesse abbastanza elegante e sottile da oscillare senza difficoltà su delle vertiginose Jimmy Choo o da permetterle di fasciarlo nell’ultima creazione di Donna Karan.
Ecco la sala riunioni. Prese un gran respiro ed entrò.
Caporedattore e capiservizio, tutti con un iPad davanti, tutti collegati in Rete.
«Buongiorno!» salutò con un bel sorriso, appena spruzzato di sarcasmo.
«Ciao 32
«Chissà perché all’improvviso si gela…» commentò il responsabile dello sport, suscitando qualche risata.
«Ghiaccioli in questa stagione?» chiese un altro.
«I ghiaccioli italiani sono i migliori, non lo sapevi?» rispose un altro ancora, riferendosi alla nazionalità di Bella.
La quale, come tutte le mattine, non diede alcun segno di offendersi o anche solo di prendersela un pochino. Sorrise fingendosi divertita dallo sfottò e con un «Molto spiritosi, come sempre» andò a servirsi una tazza di caffè, sforzandosi di non guardare le ciambelle.
Che si fottessero anche quelle.
Prese posto vicino a Elizabeth e Maddie, gli altri due esseri umani nella stanza privi di cromosoma Y.
«Sei uscita con quel Tom, ieri sera?» le chiese Maddie mentre il direttore faceva il suo ingresso nella sala come se fosse inseguito da un Attila piuttosto inviperito invece che dalla sua assistente.
«Mark, si chiama, e sì, ci sono uscita.»
«Ehhhhh?» si inserì Elizabeth curiosa.
«Ehhhh… niente.»
«Neppure un bacio? Così, tanto per provare se ti scongelava un po’.»
Bella alzò gli occhi al cielo ripensando a come l’avesse liquidato prima che lui potesse solo pensare di baciarla.
«Se le signore fossero così gentili da concedermi la loro attenzione…»
La voce in falsetto del direttore.
Lewis-faccia da schiaffi-Cards, a essere gentili. Ribattezzato House of Cards non per niente, visto che avrebbe ucciso la madre per salire un gradino, anche uno piccolo piccolo, nella scala del successo.
Non lo sopportava più.
Del tutto ricambiata, visto che lui non sopportava lei dopo che, udite udite, aveva osato respingerlo. Da quella sera nel suo ufficio, un paio di mesi prima, quando si era liberata di lui con un ceffone e lui l’aveva definita stronza di merda, una tautologia tanto inutile quanto poco raffinata, anche il loro rapporto professionale si era comprensibilmente arenato. Da allora Cards aveva cominciato a tormentarla affidandole compiti da poco, che non solo con la moda e lo stile non avevano niente a che vedere, ma che avevano spesso lo scopo di umiliarla. Notiziole tappabuchi che neppure uno stagista del blog del giornale avrebbe accettato di scrivere.
Mobbing?
Forse. In ogni caso niente che non potesse affrontare dopo essersi passata sulle mani una bella dose di disinfettante.
Così, senza mai smettere il tacco dodici, aveva accettato di stare al gioco di quell’omuncolo, anche perché, se non l’avesse fatto, Cards sarebbe stato più che felice di liberarsi di lei e del ricordo di quelle cinque dita stampate sulla faccia.
«Cominciamo…»
Il solito confronto con i giornali della concorrenza, le solite invettive per le notizie bucate e la soddisfazione per gli scoop, il tutto prima che il caporedattore prendesse la parola, seguito, uno dopo l’altro, dai capiservizio. Insomma, la solita trafila per mettere a punto l’edizione dell’indomani.
Ogni volta era come un puzzle da comporre, lavoro affascinante ma irto di difficoltà, dove la diplomazia del caporedattore era essenziale per evitare duelli all’ultimo sangue fra i suoi sottoposti. Esteri contro interni, politica contro cultura, spettacolo contro cronaca, salute contro costume, sport contro tutti.
Non era un tipo di tenzone che coinvolgeva Bella, e non solo perché amava il quieto vivere.
In fondo era caposervizio di se stessa e di un paio di freelance e sapeva che i suoi pezzi avrebbero trovato spazio se e forse ci fosse stata un’esigenza pubblicitaria o fosse rimasta libera una mezza pagina, a volte tra gli articoli di costume, a volte tra le pagine della cultura o della cronaca. Sapeva anche che, come sempre, quella mattina sarebbe stata l’ultima a esporre la sua scaletta, che non prevedeva che un’intervista al responsabile di un’importante boutique della città. Una vera barba, ma il negozio spendeva ogni anno un sacco di soldi in pubblicità e bisognava tenerselo buono.
Ma non sarebbe andata sempre così. Per quanto adorasse il suo mestiere, era stanca della moda, voleva scrivere di qualcosa di più stimolante delle ultime sfilate.
Fingendo di seguire la programmazione sul suo iPad, si stampò un’espressione interessata sul volto e attese pazientemente il suo turno che, puntuale, arrivò mentre gli altri capiservizio già cominciavano a raccogliere le proprie cose per correre in redazione e assegnare i pezzi ai redattori.
Come al solito parlò senza essere ascoltata da nessuno, tanto che, se avesse affermato che gli uomini la prossima stagione avrebbero indossato crinolina e corsetto, nessuno se ne sarebbe accorto. Il suo pezzo venne come sempre approvato visto che i suoi articoli procuravano al giornale un discreto apporto pubblicitario. E a quel punto, come da manuale, altri pezzi, benché non di sua competenza, le piovvero addosso come tante mannaie. D’altronde, la sua temperatura esterna poteva essere sì di 32 gradi Fahrenheit, ma quando si trattava di riempire i vuoti nelle scalette dei suoi colleghi, di colpo diventava la cocca di tutti.
Bella su e Bella giù.
Da grande lavoratrice qual era sempre stata non aveva mai rifiutato un pezzo, a meno che non trascendesse le sue competenze. Una volta aveva persino intervistato un attaccante degli Ice Breakers. «Tu che di ghiaccio te ne intendi» le aveva detto il direttore sollevando uno sghignazzo generale, «perché non intervisti Mark Davis? Niente che riguardi l’hockey, domande sul suo tempo libero, cosa gli piace e non gli piace fare, roba di quel genere, che i fan adorano.»
E lei lo aveva fatto. E da come lo stronzo ci aveva provato per tutta la telefonata, non ci era voluto molto a capire quali fossero i suoi interessi. D’altronde, da quando si era trasferita a Denver, dove l’hockey era una religione, non era un mistero neppure per lei che i giocatori di hockey non avevano in testa che una cosa, in campo e fuori: andare a segno.
Finalmente la riunione giunse al termine ma, tra il vocio dei presenti che cresceva e gli iPad che venivano richiusi nelle custodie, il direttore chiese ancora un momento di attenzione.
«Ci sarebbe un ultimo punto da discutere.»
Bella, pur senza guardarlo, sentì gli occhi di Cards perforarla e rabbrividì. Guai in vista?
«Tutti siete a conoscenza dell’esperimento del Daily, vero? Vi ho inviato una email con tutte le informazioni necessarie» continuò il direttore.
«Esperimento fallito. Un redattore incaricato di sopravvivere per un mese con cento dollari in tasca, senza cellulare e carta di credito, avrebbe dovuto dimostrare che fortuna audaci iuvat» disse il responsabile dello sport con fare da saputello.
«Audaces iuvat, semmai» lo corresse Bella.
«Sì, proprio così» la rimbeccò quello. «Insomma, la solita storia del sogno americano: chi vuole può farcela.»
Bella scosse la testa e si fece sfuggire un «Ah!» sarcastico prima di aggiungere: «Non mi sembra che il redattore del Daily ce l’abbia fatta, o sbaglio? È corso a casa con la coda fra le gambe e, da quel che ho capito, lo stomaco molto vuoto.»
«Un povero inetto, quel Brown» rincarò la dose il capo della cronaca. «D’altronde, come aspettarsi qualcosa di diverso da un tipo come quello? Ha fatto fare al Daily una figura da dilettanti.»
Bella guardò Elizabeth e Maddie, scuotendo il capo.
«Se non ho capito male, il sogno americano non c’entrava affatto con quell’esperimento» disse Maddie. «Semmai si trattava della fuga dal sogno americano: come darsela a gambe e sparire con cento dollari in tasca.»
«Credo che l’esperimento» si inserì Bella, «volesse testare più che altro i sistemi informatici che ormai ci controllano ventiquattr’ore su ventiquattro: telecamere, gps, cellulari, telefonini, carte di credito.»
Tutti la stavano fissando. Chissà perché non se n’era stata zitta! Lei non era una semplice esperta di moda?
«In effetti» aggiunse Cards, «hai colto il punto, Beauty.» Beauty! Bastardo di uno stalker. «È possibile far perdere le proprie tracce in un mondo in cui ogni nostro passo lascia una scia digitale?»
«Il Grande Fratello ci guarda» commentò Bella senza rispondere alla domanda retorica del direttore, che, curiosamente, sembrava rivolta proprio a lei. Si guardò intorno mentre Cards riprendeva il suo bel discorsetto.
«Il mondo si interroga se sia giusto o sbagliato portarci addosso un ipotetico codice a barre, se questa continua schedatura ci difenda davvero dai cattivi o se ci riduca a semplici numeri in mano al potere.»
«Bel discorso, direttore» disse il caporedattore, che incominciava a scalpitare perché aveva un giornale da preparare, lui. «Ma tutto questo dove ci porta?»
Cards fissò i presenti col suo sorriso acuminato. «Il Daily non ce l’ha fatta, ma se noi raccogliessimo la sfida e dimostrassimo che è possibile sparire e ingannare il Grande Fratello armati solo di intelligenza e di pochi dollari? Sarebbe un grande scoop per il giornale!»
La sala riunioni prima ammutolì, poi le voci si rialzarono tutte insieme, qualcuna approvando l’idea del boss, qualcuna affossandola.
«L’unico che potrebbe riuscire a superare i controlli informatici è un esperto del settore, un hacker!» disse il caposervizio della cronaca allargando le braccia.
«No, io non lo credo» rispose Cards, e Bella sentì di nuovo i suoi occhi che la trapassavano. «Qualche volontario fra lor signori e signore?»
Altri mormorii, tanti occhi che fissavano il soffitto o fuori dalla finestra.
«Quel che non capisco» disse Bella senza abbassare lo sguardo, «ammesso che accettiamo la sfida del Daily, quale ente, istituto o agenzia federale avrebbe il compito di dare la caccia alla nostra cavia? Non credo che per assicurarci uno scoop FBI, NSA, Homeland Security e tutte le sigle governative di cui questo Paese abbonda si presterebbero al nostro gioco!»
«Vero» rispose il direttore con un sorriso compiaciuto. «Te l’ho già detto che non dovresti occuparti di moda ma di qualcosa di più serio, Beauty.»
Dio, odiava quando quell’uomo la chiamava Beauty, come se fosse la sorellina di Barbie!
«La moda in realtà è serissima, direttore.»
Lui la guardò scrollando le spalle. «In ogni caso, hai messo il dito nella piaga. Non possiamo tirare in ballo le agenzie federali per scovare il nostro fuggitivo, ma…»
Altro silenzio grondante retorica che irritò alquanto Bella.
«Ho le mie conoscenze» sentenziò House of Cards gonfiando il petto come un pavone.
Le sue conoscenze! Bella alzò gli occhi al cielo perché, dai, non ci voleva un genio per capire chi fossero le sue conoscenze.
«Si riferisce alla redazione investigativa, direttore?»
«Sì, decisamente non dovresti occuparti di moda. Seguimi nel mio ufficio.»

***

16 ottobre 2015
Hope, Wyoming

Un altro giorno stava per incominciare. 
Un altro giorno che si sarebbe spento in un’altra notte.
La sua vita era un susseguirsi inutile di secondi, minuti e ore senza luce. Non c’era più luce in lui, né fuori di lui.
Forse non era più neppure un essere umano. Forse era diventato una bestia. Sì, doveva essere così, almeno a giudicare dai peli che gli coprivano il volto e dai ringhi e grugniti con i quali ormai si esprimeva nella vana speranza di tener lontano il mondo.  
Ray predatore Raider fece per alzarsi dal divano che era diventato la sua zattera di salvataggio, ma ricadde pesantemente sui cuscini lasciando andare un sospiro disperato.
Il male al ginocchio, da quando aveva interrotto gli antidolorifici, era insopportabile, ma almeno gli permetteva di rimanere lucido e di non dimenticare.
Bussavano alla porta, ecco perché si era svegliato dal suo torpore.
Anne, probabilmente, e la sua mania di portargli da mangiare quando lui avrebbe voluto solo bere.
Si sdraiò di nuovo sul divano e si coprì la testa con un cuscino. Avrebbe finto di dormire, sì, e Anne se ne sarebbe andata.
Sentì la chiave girare nella toppa.
Anne non era il tipo da andarsene, anche perché era in possesso di un doppione per entrare in casa sua. Per quale ragione gliel’aveva dato? Forse perché era come una sorella maggiore ed era stata lei a prendersi cura di lui da quando era tornato a casa?
«Ray!»
La voce di Anne risuonò nell’ingresso mentre il ticchettio delle unghie di Bear sul pavimento lo avvisò che nel giro di pochi secondi la grossa lingua di quell’animale inutile gli avrebbe dato il buongiorno. D’altronde, anche se lo aveva mandato in esilio da Anne, era il suo cane, no?
Meglio fingere di dormire.
«Razza di sciagurato, sai che ore sono?»
Non gli importava un cazzo di che ore fossero. Si girò verso la spalliera del divano, grugnì e si cacciò un secondo cuscino sulla testa.
Ma lei, quella donna impossibile, non demorse, anzi. Era più testarda di un mulo e soprattutto era senza cuore. Com’è che non capiva che, ora che la sua vita era rovinata, voleva solo starsene tutto il giorno su quel divano a commiserarsi senza nessuno tra i piedi?
Neanche Bear doveva averlo capito, visto che fra pochi secondi gli sarebbe saltato addosso. Era probabile che quel gran bastardo, e in questo caso non era un insulto ma una perfetta descrizione dell’animale, avesse già un metro di lingua fuori pronta per lui.
«Ti ho portato dei sandwich, i pancake con la composta di mirtilli e ora ti preparo un buon caffè. Sperando di non prendermi il tifo nella tua cucina. Diavolo, due giorni che non vengo e guarda come hai ridotto questo posto. Ti mando qualcuno a pulire, più tardi.»
Ray rispose con un altro grugnito, ma più minaccioso.
«Allora, se non vuoi nessuno in giro, dovrò farlo io!» disse la donna con un sospiro. «E sai che la mia schiena ne soffrirà!»
Credeva forse che la carta della vittima funzionasse ancora? Anne era più robusta di un toro, altro che mal di schiena! E poi, a lui, non importava di vivere in un porcile. Non gli importava di vivere tout court.
Un altro grugnito.
«Mr Simpatia, raggiungimi in cucina che ho delle novità su David.»
David?
Anne aveva davvero delle novità sul piccolo David o era solo un modo per prenderlo all’amo?
Intanto, a colpi di muso, Bear aveva spostato uno dei due cuscini che gli coprivano la faccia ed era passato all’analisi fisico-chimica dei diversi tipi di odore che si sprigionavano dal suo corpo. Non che ci fosse da stupirsi, visto come puzzava.
«Vattene, Bear!»
Ma il cane non si mosse, anzi con una delle sue zampone cercò di richiamare la sua attenzione, o forse di abbracciarlo o, ancora, e ciò sarebbe stato di gran lunga meglio, di scavare una buca dove seppellirlo, lui e la sua puzza.
Con l’ennesimo grugnito si girò verso Bear e due occhi speranzosi lo trafissero. Nonostante la sua esistenza gli apparisse come un inferno in terra, Ray non poté fare a meno di sorridere e di accarezzare la grossa testa del cane.
«Sai che sei un rompiscatole peggio di Anne?» disse prima di alzarsi in piedi con non poche difficoltà.
David.
Prese le stampelle appoggiate al tavolino e se le sistemò sotto le ascelle preparandosi mentalmente a sopportare il dolore che lo avrebbe investito a ogni passo.
Seguito da Bear, caracollò sino in cucina, da dove proveniva l’aroma di un caffè che un tempo gli sarebbe parso squisito. Ora non sprecava neppure il tempo a prepararselo, il caffè. Versava direttamente dal rubinetto un po’ di acqua calda in una tazza e, se ne aveva la forza, ci aggiungeva un cucchiaio di liofilizzato. Altrimenti si accontentava dell’acqua calda.
«Siediti» gli ordinò Anne mentre liberava il tavolo da piatti e bicchieri sporchi e da un nutrito campionario di scatole di take-away ancora mezze piene. «Dio, che schifo, Ray! Star male non vuol dire ridursi così!» gli urlò la donna mettendogli davanti una tazza di caffè e i pancake ai mirtilli che gli aveva portato dalla tavola calda.
Lui non rispose, ma bevve un sorso di caffè sotto lo sguardo attento di Bear che gli si era seduto di fianco sperando di certo in qualche boccone. Fece tre tentativi prima che la voce gli uscisse dalla gola, ma alla fine ci riuscì. Le parole fluirono lente e roche, come se anche loro fossero a pezzi.
«Dimmi di David, Anne.»
La donna smise di lavare i piatti e si girò verso di lui. Era un sorriso quello che aveva sulle labbra? Doveva forse sperare?
«Te lo dirò se prima mi prometti che lascerai che qualcuno dia una pulita a questo posto. Carmen, magari.»
«Dimmi di David, Anne» ripeté fissando il liquido scuro nella tazza.
«Prometti?»
Un altro grugnito.
«Lo prenderò per un . Il bambino è uscito dal coma.»
Per poco la tazza non gli cadde di mano. Riuscì a evitare che si schiantasse sul tavolo, ma non a impedire che il liquido bollente gli finisse sulla mano, scottandolo.
Ma non sentì dolore.
La gioia per la notizia era così devastante che in quel momento avrebbe potuto tenere in mano un tizzone acceso e non se ne sarebbe accorto.
«E… come sta?»
Anne era già accorsa con un panno bagnato e gli tamponava le dita che grondavano caffè bollente. «Ci manca solo un’ustione al lungo elenco di infortuni che ti sei procurato!» disse sospirando.
Ray continuò a fissarla fino a quando non ottenne la risposta che aspettava con tanta apprensione.
«Lui sta meglio, anche se la prognosi non è ancora sciolta. Ma i medici sperano.»
«Voglio andare a trovarlo.»
«Fino a Denver? Non sei ancora in grado di prendere un aereo. Puoi chiamare i genitori, invece.»
«Lo sai che non vogliono parlarmi.»
«Vedrai, prima o poi lo faranno.»

***


domenica 14 agosto 2016

LADY ADELE, UN RACCONTO VITTORIANO

Lady Adele è un racconto che scrissi qualche anno fa e che pubblicai, quando ancora usavo il nom de plume Georgette Grig, su La Romance Magazine e sul blog La mia biblioteca romantica (ringrazio ancora Francy della Rosa per la bella cover che per l'occasione realizzò e che ripropongo qui).  Per l'occasione, il racconto è stato rieditato.
Enjoy!   

LADY ADELE

Londra, novembre 1900
Con un impercettibile fremito smontò dalla carrozza, il capo chino, le vesti strette nella mano destra, la sinistra appoggiata al braccio del vetturino. Sollevò appena il viso velato e scorse il primo dei cinque scalini che l’avrebbero condotta nella casa. Alzò lo sguardo.
Nella nebbia densa e maleodorante di quella notte lontana, i globi che illuminavano l’ingresso del palazzo le sembrarono entità fluttuanti, eteree, irreali. Paurose.
Un altro fremito, forse di timore o di inopportuna anticipazione, scosse le tenere viscere di Lady Adele quando la sua mano guantata, esile ed elegante, impugnò l’anello lucente del battiporta e lo batté una, due, tre volte. In modo imperioso, impaziente.
Indignato.
Già la carrozza si allontanava, lasciandola avvolta nella nebbia, sola, preda  dei suoi pavidi desideri e della sua collera. Quando il portone si spalancò la pendola nell’ingresso cominciava a suonare i suoi rintocchi, uno dopo l’altro…sette, otto, nove.
Era in ritardo.
Adele entrò e con un solo, rapido cenno della mano chiarì al servitore indiano che il mantello e il copricapo che indossava sarebbero rimasti dove si trovavano.
Con un inchino l’uomo la pregò tacitamente di seguirlo, cosa che lei con prontezza fece. Salirono al primo piano. In fondo a un lungo corridoio il servitore bussò a una porta ed entrò.
“La vostra ospite, Sir.”
Adele rimase immobile, come un dipinto incorniciato nello stipite della porta, un vivido ritratto dalle dimensioni reali. E non si mosse sino a quando Mr Lancaster, alzandosi dalla grande scrivania, le andò incontro invitandola ad entrare. Nonostante le maniere misurate e impeccabili, i suoi occhi tradivano l’impazienza e la collera di chi non è uso attendere.
“Grazie di essere venuta my lady. Vi prego, accomodatevi.”
La voce era profonda, morbida, ma non indulgente.
Adele entrò. L’uomo richiuse la porta dietro di lei. A chiave.
Si trovavano in uno studio ampio ed elegante, illuminato come il resto della casa dalla luce elettrica. Una vetrata occupava quasi per intero una delle pareti, mentre le altre erano rivestite da scaffalature che correvano sino al soffitto, cariche di libri di ogni dimensione e genere. Di tomi ce ne erano un po’ dappertutto, anche per terra, sistemati in piccole pile pericolanti, sulla  scrivania, sul tavolino di fronte al camino acceso. Adele si guardò intorno e notò subito l’altra porta con un brivido di incertezza che  domò in modo infantile, sollevando il mento e raddrizzando le spalle.
“Sono onorato che non vi siate scordata del nostro appuntamento, signora…sebbene il vostro ritardo mi abbia fatto temere il peggio.”
“Considerata la situazione, come avrei potuto scordarmene, signore?” gli rispose lesta, il tono della voce palesemente sarcastico.
Lui alzò un sopracciglio, in un gesto insolente e canzonatorio.
“C’è sempre la possibilità di scegliere, di cambiare idea, my lady.”
“Non per tutti, signore.”
 Adele si era messa intanto a camminare in modo distratto lungo il perimetro della stanza, come se fosse vagamente interessata ai titoli dei libri, ma giunta davanti  alla seconda porta si fermò e la aprì con un gesto deciso.
Non che non sospettasse quale genere di camera quella porta celasse. Oh, lo sapeva benissimo. Era la ragione della sua visita, in fondo. Ciononostante, smaniava di vederla, di respirarne il profumo, di provare il brivido che la mera consapevolezza della sua vicinanza le avrebbe dato.
Rimanendo sulla soglia, sbirciò dentro. Era una bella camera, decise. Raffinata, semplice. Maschile. Profumava di sandalo, di spezie lontane e forse di whisky. Illuminato dal fuoco che bruciava nel camino, un grande letto a quattro colonne campeggiava contro la parete di fondo, già pronto per la notte. Il candore delle lenzuola di seta brillava nella semioscurità promettendo sensuali carezze sulla pelle nuda. Anticipando quel piacere, Adele si girò verso Lancaster, incurante di essere arrossita. Dopotutto, il viso era ancora velato...
“Vedo che tutto è pronto per il nostro incontro” disse con leggerezza.
“Voi lo siete, signora?”
“Cambierebbe lo stato delle cose se io non lo fossi?”
“No.”
Richiuse la porta della camera da letto e quando si girò Lancaster le era vicino. Troppo.


Avete indossato ciò che vi ho chiesto?” le chiese.
Senza una sola parola Adele aprì il mantello e se lo fece scivolare lungo il corpo, finché cadendo non formò una pozza nera ai suoi piedi. Lancaster sentì un nodo chiudergli la gola e il cuore accelerare all’improvviso. Adele portava l’abito che lui le aveva inviato, identico a quello che indossava nelle sue fantasie, rosso come la passione che da mesi lo infiammava. Non riusciva a distogliere lo sguardo dalle sue spalle nude e dalla scollatura indecente, tanto profonda da lasciar intravedere l’ombra più scura dei capezzoli quando il respiro le sollevava il seno.
Neppure la sua stessa immaginazione aveva osato tanto.
Lancaster sentì il cuore mancare un colpo e un involontario gemito svuotargli i polmoni. Si concesse un respiro profondo prima di mormorare:
“Grazie per avermi accontentato, my lady. Siete ravissante. Come la mantiglia che seduce e ammalia il toro, che lo attira verso la morte.”
“Ah!” esclamò lei sarcastica. “E  sareste voi il toro?  Pensavo a voi più come al matador, per la verità. Pronto ad uccidere, non certo ad essere ucciso.”
“Posso prenderlo per un complimento?”
“Prendetelo come più vi garba, come fate con tutto quanto, del resto.”
“Quando dite tutto quanto includete anche voi stessa? Perché mi sembrerebbe una dichiarazione impegnativa da parte vostra. In fondo non ho osato chiedervi che una sola notte…”
“Ah, signore! Non siate volgare, almeno.”


Il sorriso sensuale dell’uomo si aprì a una risata, mostrando denti bianchissimi e regolari. Adele provò il desiderio di sfiorargli le labbra con le dita. Per qualche istante rimase a meditare su quale dito avrebbe usato per primo. Il volto le si imporporò di nuovo.
“Avete mai visto una corrida, Lady Adele?”
Quella domanda la riportò con un sussulto colpevole dagli abissi di un desiderio malandrino alla realtà di quel momento.
“Una corrida?” Il capo ancora velato si piegò all’indietro, in un segno d’insofferenza.
“Non riesco davvero a comprendere questa vostra predisposizione a parlare di tori, mantiglie e toreri, signore. Mi state annoiando.”
“Ciò è gravissimo…” fece lui, ironico.
“Comunque…” continuò Adele dandogli all’improvviso le spalle, “sì, l’ho vista. In una torrida estate a Toledo. Uno spettacolo disgustante, un inutile sacrificio pagano al dio della virilità cui tutti gli uomini sembrano essere alquanto devoti.”
Lui sorrise, condiscendente.
“Come potremmo non invocarlo, signora, quando creature come voi ci tolgono il bene della ragione?”
Le si avvicinò. Uno, due, tre passi. Delicatamente la fece ruotare su se stessa. Le era talmente vicino che il velo di Adele ondeggiava al ritmo del respiro di lui. 
“Levatevi il velo e il copricapo, signora. Voglio vedervi in volto. Voglio potervi accarezzare i capelli, se me ne verrà la tentazione. Scioglieteveli. Adesso.”
“E se mi rifiutassi?”
“Avete già scordato il nostro accordo?”
“Il vostro ricatto, volete dire.”
“A cui vi state piegando con estremo piacere, oserei dire.”
Adele alzò una mano per colpirlo, ma la lasciò ricadere subito, intimorita dal bagliore che vide brillare negli occhi rapaci dell’uomo e dalla verità di quelle parole. 
Batté un piede per terra, in un palese e infantile gesto di stizza.
“My lady…” fece lui, esortandola con un gesto affrettato della mano a procedere.
“Voglio vedere la lettera, prima.”
“Dopo.”
“Adesso.”
“Il velo, e il cappello. Via. Subito.”
“Il velo. Mi toglierò il velo. Poi voi mi mostrerete la lettera e anche il cappello cadrà.”
Lui le sorrise, rubandole il fiato per un istante, ricacciandola indietro nel tempo, alla prima volta che si erano incontrati. La voce di Lancaster la riportò al presente.
“E sia. Vi accontenterò. Il velo, poi la lettera.”


Immobile, Lancaster rimase ad osservarla mentre alzava con deliberata lentezza i lembi di quella stoffa sottile e impalpabile, come fosse un sipario. Per un istante si perse nei lineamenti di quel viso straordinario, volitivo, per nulla etereo: un naso piccolo, leggermente aquilino, zigomi alti, importanti, occhi grandi, grigi come un cielo d’inverno, incorniciati da ciglia lunghe e nere. Labbra piene e accese. Di queste lo sguardo di Lancaster sembrava non essere mai sazio.
Adele gettò a terra il velo e allungò una mano, in palese attesa di quanto lui le aveva promesso in cambio. Come in preda a un raptus, lui le catturò le dita con un gesto repentino, per nulla delicato, e se le portò alle labbra. Con un piacere profondo, quasi indecente, vide gli occhi di lei dilatarsi per la sorpresa e gli parve di sentire il frenetico pulsare del sangue nelle vene di lei.
Il calore della sua pelle lo infiammò.
Le sorrise, sfacciato, provocatore, come si fossero appena incontrati a un evento mondano, a una festa o all’opera. Poi, affamate, le sue labbra si posarono sul polso di Adele, al suo interno, incuranti del fragile guanto di pizzo nero che lei indossava. Succhiarono con dolcezza proprio là dove più forte batteva il sangue, accarezzarono umide la pelle calda e profumata.
Mentre Adele rimaneva a bocca spalancata, ansante, l’espressione del volto incerta tra piacere e indignazione, lui le lasciò la mano, andò alla scrivania e da un cassetto estrasse una busta bianca. Poi, sventolandola leggermente, gliela porse.
“Ecco la vostra lettera, signora.”
“Terrete fede alla parola data? Annullerete il debito a mio marito?” “Preferirei vederlo marcire a New Gate, ma manterrò la mia promessa. Se voi manterrete la vostra.”
Lei aprì il foglio e cominciò a leggere. Lui riprese a parlare, con voce seducente, calda, invitante.
“Perché non lo lasciate, avete mai sentito parlare di divorzio?” chiese ironico.
Nonostante l’apparente indifferenza di Adele a quelle parole, Lancaster colse un fremito di speranza nella donna, un guizzo negli occhi, un improvviso tremore, subito represso.
“Potreste partire con me, o raggiungermi a New York.”
Un altro fremito. Poi un respiro profondo.
“Non dite sciocchezze, Mr Lancaster” gli rispose, riconsegnandogli la lettera.
Lui gliela prese di mano, sicuro di averle instillato quanto meno l’ombra del dubbio. Sorrise compiaciuto, poi ripiegò il foglio e dopo averlo riposto con cura nella tasca della giacca, disse:
“Il cappello, ora.”
 Senza staccare gli occhi dai suoi, Adele  prese ad armeggiare con gli spilloni dell’ampio cappello e in breve anche questo volò a terra. Ciocche lisce e nere sfuggirono all’elaborata capigliatura che, come per miracolo, a un ultimo tocco di Adele si sciolse. I capelli, lunghi e lucenti, le caddero sulle spalle come scompigliati da un vento impetuoso o dalle mani avide di un amante. Lancaster non riuscì a resistere al loro richiamo: ne prese una ciocca fra le dita e se la portò alle labbra prima di lasciarla ricadere con un gemito. 
“Sapete quanto ho sognato questo momento, Adele?”




L’aveva chiamata per nome, come se ormai ne avesse il diritto.
“Da non più di un mese, dal momento che la prima volta che ci siamo incontrati è stato al ricevimento dei Ballards” ribatté lei concreta, cercando di nascondere con l’evidenza dei fatti il brivido che quel gemito le aveva provocato.
Lui sorrise ironico, abbassò il capo e le avvicinò le labbra all’orecchio scatenando in lei un’onda di piacere imprevisto, inopportuno.Vile. “Bugiarda, sapete bene che sono passati due anni da quando ci siamo inontrati la prima volta…”
Sentire la voce roca e calda di Lancaster accarezzarla in quel punto tanto sensibile cancellò ogni sua sicurezza e prudenza. Non più nascoste dal velo, le sue labbra socchiuse divennero impazienti e le  guance si imporporarono. Il capo si piegò di lato e le palpebre crollarono mentre offriva a quell’uomo la candida pelle del suo collo. Mentre gli offriva tutta se stessa.

*
Lancaster si lasciò andare ad un sorriso di vittoria. La donna era sua, almeno per quella notte, forse per sempre se avesse  giocato bene le sue carte. Così respinse la fretta. Si allontanò da lei che, in attesa di essere baciata, era rimasta immobile come una vergine sull’ara del sacrificio.
Prima di aprire gli occhi ed esplodere in un indignato: Oh!

*
Si girò dove lui avrebbe dovuto essere, senza trovarlo. Poi lo scorse  comodamente seduto in poltrona, un sorrisino strafottente sulle labbra.
Arrogante borghese americano, pensò, incerta su quale di questi tre termini ritenesse più offensivo.
“Avete cambiato idea, signore? Ditemi se è così, che me ne vado all’istante. E con sommo piacere” disse, veemente.
“Avete fretta di concludere… il nostro accordo, my lady?”
Un altro oh! Ancora più indignato.
“Vi rammento, Adele, che mi avete promesso tutta la notte. Dodici ore. Fino alle nove di domattina. E non è passata che una mezz’ora.” 
Adele, piccata come una bimba messa in castigo, si sistemò sull’altra poltrona, dandogli le spalle.
“Mantengo sempre la mia parola, signore, e vi rammento che l’accordo era fino alle otto” ribatté guardando fissa davanti a sé.
“Alle otto… se foste arrivata puntuale. Non ho alcuna intenzione di condonarvi un’ora, se per questo neppure un minuto. Ma… che ne direste di andare a cena?” Le porse la mano. “Non avete fame?”


Mangiarono ostriche e cibo indiano, speziato, piccante, sensuale. Bevvero champagne ghiacciato. Il cibo, lo champagne, la conversazione fitta e quasi allegra diedero una nota di normalità al loro appuntamento segreto e licenzioso, come se da anni entrambi attendessero quell’occasione, lei per essere corteggiata, lui per corteggiarla. Mesi di inappuntabili appuntamenti vissuti in un paio d’ore. Diedero qualche colpo di stecca, danzarono, cantarono. Si spostarono da una stanza all’altra di quella grande casa come fossero in una meravigliosa città eretta solo per loro. Liberi e deliziosamente soli. Poi, a mezzanotte, lui la prese per mano e la ricondusse nello studio.
E richiuse la porta a chiave.
“Vi ricordate, ora, in che occasione ci siamo incontrati, prima del ricevimento dei Ballards?” chiese.
Lei abbassò gli occhi, non era più il momento di mentire.
“Come potrei aver dimenticato? Sul Mauritania, in navigazione verso New York. Non vi ho mai scordato, signore. Nessuno aveva mai osato baciarmi così prima di quella notte, men che meno uno sconosciuto.”
Lui sorrise e le si avvicinò. Con gentilezza le sollevò il viso e  la costrinse a guardarlo negli occhi.
“E dopo quella notte, ?”
Lei scosse il capo e mormorò: “Nessuno.”
“E’ stato lo stesso per me” sussurrò lui, prima di accostare le labbra avide alle sue. Con una lentezza che a lei parve crudele.
“Vorreste essere di nuovo baciata in quel modo?” mormorò senza permettere alle loro bocche di separarsi.
Questa volta Adele annuì vivacemente, senza cessare di guardare quegli occhi che le promettevano il paradiso. O forse l’inferno.
Per una sola notte.


Lancaster le prese il volto fra le mani mentre già cominciava ad esplorare e ad assaporare l’interno di velluto della bocca di Adele con passione crescente, senza gentilezza, come se stesse divorandola. Come se stesse possedendola.
Attese cauto che le braccia di Adele si stringessero a lui prima di cedere al proprio ardore, prima di accarezzarla come fosse già sua, prima di lasciar scorrere le sue dita leggere lungo il collo morbido e pulsante di lei, sulle sue spalle di seta, sui suoi fianchi invitanti. Sui suoi seni impazienti. La sentì fremere di una passione primitiva quando la liberò dal giogo dell’abito, gemere di un piacere che lo inebriò sino a renderlo folle di desiderio quando si chinò a succhiarle i capezzoli.
Un’urgenza adolescenziale si impadronì di lui. La necessità di prenderla subito contro una parete o sulla scrivania gli offuscò la mente. Ma non poteva, non doveva.
Respirò. Si calmò.
La sollevò fra le braccia e  con tenerezza la portò sino al letto senza mai smettere di possedere la sua bocca, senza mai smettere di pensare a una sola cosa.
Sua. Lei era sua ormai.
Quella notte e per sempre.


Fine


Altri miei racconti, sia storici che contemporanei, sono pubblicati qui sul blog o all'interno del mio sito (qui).
E se avete piacere, lasciate una vostra impressione nei commenti.

Grazie per avermi letta. :)

Yours truly
                  Viviana