La mia bestia è sugli store!
È ora che io cominci a tremare. Piacerà, non piacerà? 😛
A me è piaciuto un sacco scrivere questa favola moderna ispirata a La Bella e la Bestia. E lui, la Bestia, mi ha fatta innamorare (il giocatore di hockey cui mi sono ispirata si chiama Patrick Sharp, e sì, è uno pazzesco).
Sospirone.
In ogni caso, ecco la sinossi del romanzo e l'incipit nel quale introduco i due protagonisti, Ray, la Bestia 😅, e Bella, la Bella. 😁
Lasciate i vostri commenti!
Un abbraccio
Yours truly Viviana
LA SINOSSI
Avviso ai possibili lettori: questo è un romance, ovvero un romanzo rosa, e come tale può giovare altamente alla vostra salute.
Nella sua nuova commedia romantica Viviana Giorgi ci riporta a Hope, Wyoming – lo stesso villaggio di Tutta colpa del vento e di un cowboy dagli occhi verdi – che diventa così lo sfondo ideale per un omaggio ironico e sensuale a La Bella e La Bestia, la sua fiaba preferita.
Ray predatore Raider, attaccante di punta degli Ice Breakers di Denver, è un uomo arrabbiato, più furioso di una bestia feroce chiusa in gabbia. E non che non ne abbia ragione. In un assurdo incidente automobilistico non solo si è fracassato un ginocchio, cosa che non gli permetterà mai più di stringere un bastone da hockey, ma ha pure investito un bambino. Il piccolo giace ora in coma in un letto di ospedale e lui darebbe anche l’altro ginocchio perché si risvegliasse…
Bella Satton scrive di moda sulle pagine del “Tribune” di Denver, ma non ne può più di abiti e stilisti. Così, quando il direttore le offre di prendere parte alla misteriosa Operazione Grande Fratello, lei accetta senza pensarci troppo: in un periodo in cui la privacy di tutti è minacciata da un onniveggente occhio digitale, Bella dovrà letteralmente sparire per un mese e dimostrare così che chiunque può trasformarsi in un’ombra invisibile. Ci riuscirà?
“Viviana Giorgi scrive come noi respiriamo e i suoi romanzi sono un’oasi fresca nelle nostre vite caotiche, senza per questo diventare storielle da poco. Niente affatto! Sono un puzzle in cui ogni elemento s’incastra alla perfezione con gli altri, dimostrandoci una volta di più che l’autrice ha in pugno le sue storie e le nostre menti.” Babette Brown (Babette Brown legge per voi - GRAZIE BABETTE!)
Il romanzo, di circa 360 pagine, è scaricabile da tutti gli store on line.
E INFINE LA BESTIA INCONTRÒ BELLA
L'INCIPIT
15 ottobre 2015
Denver
I tacchi di Bella risuonavano impertinenti sul corridoio di finto
marmo. Dodici centimetri. Semplicemente un altro strumento per non sentirsi persa, e non solo fisicamente, in un
mondo di gargantua. Temibili, paurosi gargantua.
Per Bella riuscire a fissare il prossimo negli occhi – quasi negli occhi in caso di superamento
della barriera dei 180 centimetri – era una necessità e spesso ci riusciva solo
grazie alle Jimmy Choo o alle Manolo, un fringe
benefit che la sua posizione di responsabile della moda del Denver Tribune le assicurava. Gli stilisti,
compresi Choo e Manolo, la omaggiavano delle loro ultime creazioni? Lei certo
non le rifiutava.
Come ogni mattina alle nove si infilò nell’ascensore più per
darsi una controllatina allo specchio che per risparmiarsi la rampa di scale
che la separava dall’ultimo piano, quello della direzione.
Sì, era tutto a posto, camicetta di seta bianca e gonna nera,
più le Jimmy Choo di vernice rossa da togliere il fiato. Capelli castani appena
ondulati sciolti sulle spalle, perle alle orecchie e al collo, un po’ di
mascara sulle ciglia a evidenziare i suoi occhi verdi, e labbra più rosse del
diavolo, in perfetta nuance con le
Jimmy Choo. Il solito travestimento, insomma, che l’avrebbe messa al sicuro da
ogni tentativo dei suoi colleghi di irrompere nella sua vita.
Branco di animali.
E che la chiamassero pure Miss Algida o Ghiacciolo alla
moda o, ancora, 32,
sottintendendo Fahrenheit (ovvero il punto di congelamento dell’acqua), o Italian Job – lavoretto italiano – sottintendendo qualcosa di più
volgare, la cosa non la toccava per nulla. Forse solo un pochino, ma se ne
infischiava.
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono portando sino a
lei il vocio dei suoi colleghi, probabilmente intenti a bere caffè e a
rimpinzarsi di ciambelle. Dio! Sembrava che non vivessero che per i
carboidrati, quando lei…
Una sola ciambella – non che non ne avesse una voglia
sconfinata – e forse sarebbe ricaduta
nel tunnel di Hänsel e Gretel, come lo chiamava lei. No, meglio neanche sniffarli
i carboidrati se voleva che il suo fisico, che un tempo lei trattava così male,
rimanesse abbastanza elegante e sottile da oscillare senza difficoltà su delle
vertiginose Jimmy Choo o da permetterle di fasciarlo nell’ultima creazione di
Donna Karan.
Ecco la sala riunioni. Prese un gran respiro ed entrò.
Caporedattore e capiservizio, tutti con un iPad davanti,
tutti collegati in Rete.
«Buongiorno!» salutò con un bel sorriso, appena spruzzato di
sarcasmo.
«Ciao 32!»
«Chissà perché all’improvviso si gela…» commentò il
responsabile dello sport, suscitando qualche risata.
«Ghiaccioli in questa stagione?» chiese un altro.
«I ghiaccioli italiani sono i migliori, non lo sapevi?»
rispose un altro ancora, riferendosi alla nazionalità di Bella.
La quale, come tutte le mattine, non diede alcun segno di
offendersi o anche solo di prendersela un pochino. Sorrise fingendosi divertita
dallo sfottò e con un «Molto spiritosi, come sempre» andò a servirsi una tazza
di caffè, sforzandosi di non guardare le ciambelle.
Che si fottessero anche quelle.
Prese posto vicino a Elizabeth e Maddie, gli altri due
esseri umani nella stanza privi di cromosoma Y.
«Sei uscita con quel Tom, ieri sera?» le chiese Maddie mentre
il direttore faceva il suo ingresso nella sala come se fosse inseguito da un
Attila piuttosto inviperito invece che dalla sua assistente.
«Mark, si chiama, e sì, ci sono uscita.»
«Ehhhhh?» si inserì Elizabeth curiosa.
«Ehhhh… niente.»
«Neppure un bacio? Così, tanto per provare se ti scongelava
un po’.»
Bella alzò gli occhi al cielo ripensando a come l’avesse
liquidato prima che lui potesse solo pensare di baciarla.
«Se le signore fossero così gentili da concedermi la loro
attenzione…»
La voce in falsetto del direttore.
Lewis-faccia da
schiaffi-Cards, a essere gentili. Ribattezzato House of Cards non per niente, visto che avrebbe ucciso la madre
per salire un gradino, anche uno piccolo piccolo, nella scala del successo.
Non lo sopportava più.
Del tutto ricambiata, visto che lui non sopportava lei dopo
che, udite udite, aveva osato
respingerlo. Da quella sera nel suo ufficio, un paio di mesi prima, quando si
era liberata di lui con un ceffone e lui l’aveva definita stronza di merda, una tautologia tanto inutile quanto poco raffinata,
anche il loro rapporto professionale si era comprensibilmente arenato. Da
allora Cards aveva cominciato a tormentarla affidandole compiti da poco, che
non solo con la moda e lo stile non avevano niente a che vedere, ma che avevano
spesso lo scopo di umiliarla. Notiziole tappabuchi che neppure uno stagista del
blog del giornale avrebbe accettato di scrivere.
Mobbing?
Forse. In ogni caso niente che non potesse affrontare dopo
essersi passata sulle mani una bella dose di disinfettante.
Così, senza mai smettere il tacco dodici, aveva accettato di
stare al gioco di quell’omuncolo, anche perché, se non l’avesse fatto, Cards
sarebbe stato più che felice di liberarsi di lei e del ricordo di quelle cinque
dita stampate sulla faccia.
«Cominciamo…»
Il solito confronto con i giornali della concorrenza, le
solite invettive per le notizie bucate e la soddisfazione per gli scoop, il
tutto prima che il caporedattore prendesse la parola, seguito, uno dopo
l’altro, dai capiservizio. Insomma, la solita trafila per mettere a punto l’edizione
dell’indomani.
Ogni volta era come un puzzle da comporre, lavoro affascinante
ma irto di difficoltà, dove la diplomazia del caporedattore era essenziale per
evitare duelli all’ultimo sangue fra i suoi sottoposti. Esteri contro interni,
politica contro cultura, spettacolo contro cronaca, salute contro costume, sport
contro tutti.
Non era un tipo di tenzone che coinvolgeva Bella, e non solo
perché amava il quieto vivere.
In fondo era caposervizio di se stessa e di un paio di
freelance e sapeva che i suoi pezzi avrebbero trovato spazio se e forse
ci fosse stata un’esigenza pubblicitaria o fosse rimasta libera una mezza
pagina, a volte tra gli articoli di costume, a volte tra le pagine della
cultura o della cronaca. Sapeva anche che, come sempre, quella mattina sarebbe
stata l’ultima a esporre la sua scaletta, che non prevedeva che un’intervista al
responsabile di un’importante boutique della città. Una vera barba, ma il negozio
spendeva ogni anno un sacco di soldi in pubblicità e bisognava tenerselo buono.
Ma non sarebbe andata sempre così. Per quanto adorasse il
suo mestiere, era stanca della moda, voleva scrivere di qualcosa di più
stimolante delle ultime sfilate.
Fingendo di seguire la programmazione sul suo iPad, si
stampò un’espressione interessata sul volto e attese pazientemente il suo turno
che, puntuale, arrivò mentre gli altri capiservizio già cominciavano a
raccogliere le proprie cose per correre in redazione e assegnare i pezzi ai redattori.
Come al solito parlò senza essere ascoltata da nessuno,
tanto che, se avesse affermato che gli uomini la prossima stagione avrebbero
indossato crinolina e corsetto, nessuno se ne sarebbe accorto. Il suo pezzo
venne come sempre approvato visto che i suoi articoli procuravano al giornale un
discreto apporto pubblicitario. E a quel punto, come da manuale, altri pezzi, benché
non di sua competenza, le piovvero addosso come tante mannaie. D’altronde, la
sua temperatura esterna poteva essere sì di 32 gradi Fahrenheit, ma quando si
trattava di riempire i vuoti nelle scalette dei suoi colleghi, di colpo
diventava la cocca di tutti.
Bella su e Bella giù.
Da grande lavoratrice qual era sempre stata non aveva mai
rifiutato un pezzo, a meno che non trascendesse le sue competenze. Una volta
aveva persino intervistato un attaccante degli Ice Breakers. «Tu che di
ghiaccio te ne intendi» le aveva detto il direttore sollevando uno sghignazzo
generale, «perché non intervisti Mark Davis? Niente che riguardi l’hockey, domande
sul suo tempo libero, cosa gli piace e non gli piace fare, roba di quel genere,
che i fan adorano.»
E lei lo aveva fatto. E da come lo stronzo ci aveva provato
per tutta la telefonata, non ci era voluto molto a capire quali fossero i suoi
interessi. D’altronde, da quando si era trasferita a Denver, dove l’hockey era
una religione, non era un mistero neppure per lei che i giocatori di hockey non
avevano in testa che una cosa, in campo e fuori: andare a segno.
Finalmente la riunione giunse al termine ma, tra il vocio
dei presenti che cresceva e gli iPad che venivano richiusi nelle custodie, il
direttore chiese ancora un momento di attenzione.
«Ci sarebbe un ultimo punto da discutere.»
Bella, pur senza guardarlo, sentì gli occhi di Cards perforarla
e rabbrividì. Guai in vista?
«Tutti siete a conoscenza dell’esperimento del Daily, vero? Vi ho inviato una email con
tutte le informazioni necessarie» continuò il direttore.
«Esperimento fallito. Un redattore incaricato di
sopravvivere per un mese con cento dollari in tasca, senza cellulare e carta di
credito, avrebbe dovuto dimostrare che fortuna
audaci iuvat» disse il responsabile dello sport con fare da saputello.
«Audaces iuvat,
semmai» lo corresse Bella.
«Sì, proprio così» la rimbeccò quello. «Insomma, la solita
storia del sogno americano: chi vuole può farcela.»
Bella scosse la testa e si fece sfuggire un «Ah!» sarcastico
prima di aggiungere: «Non mi sembra che il redattore del Daily ce l’abbia fatta, o sbaglio? È corso a casa con la coda fra
le gambe e, da quel che ho capito, lo stomaco molto vuoto.»
«Un povero inetto, quel Brown» rincarò la dose il capo della
cronaca. «D’altronde, come aspettarsi qualcosa di diverso da un tipo come
quello? Ha fatto fare al Daily una
figura da dilettanti.»
Bella guardò Elizabeth e Maddie, scuotendo il capo.
«Se non ho capito male, il sogno americano non c’entrava
affatto con quell’esperimento» disse Maddie. «Semmai si trattava della fuga dal sogno americano: come darsela a
gambe e sparire con cento dollari in tasca.»
«Credo che l’esperimento» si inserì Bella, «volesse testare
più che altro i sistemi informatici che ormai ci controllano ventiquattr’ore su
ventiquattro: telecamere, gps, cellulari, telefonini, carte di credito.»
Tutti la stavano fissando. Chissà perché non se n’era stata
zitta! Lei non era una semplice esperta di moda?
«In effetti» aggiunse Cards, «hai colto il punto, Beauty.» Beauty! Bastardo di uno stalker. «È
possibile far perdere le proprie tracce in un mondo in cui ogni nostro passo lascia
una scia digitale?»
«Il Grande Fratello ci guarda» commentò Bella senza
rispondere alla domanda retorica del direttore, che, curiosamente, sembrava
rivolta proprio a lei. Si guardò intorno mentre Cards riprendeva il suo bel discorsetto.
«Il mondo si interroga se sia giusto o sbagliato portarci
addosso un ipotetico codice a barre, se questa continua schedatura ci difenda davvero
dai cattivi o se ci riduca a semplici numeri in mano al potere.»
«Bel discorso, direttore» disse il caporedattore, che
incominciava a scalpitare perché aveva un giornale da preparare, lui. «Ma tutto
questo dove ci porta?»
Cards fissò i presenti col suo sorriso acuminato. «Il Daily non ce l’ha fatta, ma se noi raccogliessimo
la sfida e dimostrassimo che è possibile sparire e ingannare il Grande Fratello
armati solo di intelligenza e di pochi dollari? Sarebbe un grande scoop per il
giornale!»
La sala riunioni prima ammutolì, poi le voci si rialzarono
tutte insieme, qualcuna approvando l’idea del boss, qualcuna affossandola.
«L’unico che potrebbe riuscire a superare i controlli
informatici è un esperto del settore, un hacker!» disse il caposervizio della
cronaca allargando le braccia.
«No, io non lo credo» rispose Cards, e Bella sentì di nuovo
i suoi occhi che la trapassavano. «Qualche volontario fra lor signori e
signore?»
Altri mormorii, tanti occhi che fissavano il soffitto o
fuori dalla finestra.
«Quel che non capisco» disse Bella senza abbassare lo
sguardo, «ammesso che accettiamo la sfida del Daily, quale ente, istituto o agenzia federale avrebbe il compito
di dare la caccia alla nostra cavia? Non credo che per assicurarci uno scoop
FBI, NSA, Homeland Security e tutte le sigle governative di cui questo Paese abbonda
si presterebbero al nostro gioco!»
«Vero» rispose il direttore con un sorriso compiaciuto. «Te
l’ho già detto che non dovresti occuparti di moda ma di qualcosa di più serio, Beauty.»
Dio, odiava quando quell’uomo la chiamava Beauty, come se fosse
la sorellina di Barbie!
«La moda in realtà è serissima, direttore.»
Lui la guardò scrollando le spalle. «In ogni caso, hai messo
il dito nella piaga. Non possiamo tirare in ballo le agenzie federali per
scovare il nostro fuggitivo, ma…»
Altro silenzio grondante retorica che irritò alquanto Bella.
«Ho le mie conoscenze» sentenziò House of Cards gonfiando il petto come un pavone.
Le sue conoscenze! Bella alzò gli occhi al cielo perché,
dai, non ci voleva un genio per capire chi fossero le sue conoscenze.
«Si riferisce alla redazione investigativa, direttore?»
«Sì, decisamente non dovresti occuparti di moda. Seguimi nel
mio ufficio.»
***
16 ottobre 2015
Hope, Wyoming
Un altro giorno che si sarebbe spento in un’altra notte.
La sua vita era un susseguirsi inutile di secondi, minuti e
ore senza luce. Non c’era più luce in lui, né fuori di lui.
Forse non era più neppure un essere umano. Forse era
diventato una bestia. Sì, doveva essere così, almeno a giudicare dai peli che
gli coprivano il volto e dai ringhi e grugniti con i quali ormai si esprimeva
nella vana speranza di tener lontano il mondo.
Ray predatore Raider
fece per alzarsi dal divano che era diventato la sua zattera di salvataggio, ma
ricadde pesantemente sui cuscini lasciando andare un sospiro disperato.
Il male al ginocchio, da quando aveva interrotto gli
antidolorifici, era insopportabile, ma almeno gli permetteva di rimanere lucido
e di non dimenticare.
Bussavano alla porta, ecco perché si era svegliato dal suo
torpore.
Anne, probabilmente, e la sua mania di portargli da mangiare
quando lui avrebbe voluto solo bere.
Si sdraiò di nuovo sul divano e si coprì la testa con un
cuscino. Avrebbe finto di dormire, sì, e Anne se ne sarebbe andata.
Sentì la chiave girare nella toppa.
Anne non era il tipo da andarsene, anche perché era in
possesso di un doppione per entrare in casa sua. Per quale ragione gliel’aveva
dato? Forse perché era come una sorella maggiore ed era stata lei a prendersi
cura di lui da quando era tornato a casa?
«Ray!»
La voce di Anne risuonò nell’ingresso mentre il ticchettio
delle unghie di Bear sul pavimento lo avvisò che nel giro di pochi secondi la
grossa lingua di quell’animale inutile gli avrebbe dato il buongiorno.
D’altronde, anche se lo aveva mandato in esilio da Anne, era il suo cane, no?
Meglio fingere di dormire.
«Razza di sciagurato, sai che ore sono?»
Non gli importava un cazzo di che ore fossero. Si girò verso
la spalliera del divano, grugnì e si cacciò un secondo cuscino sulla testa.
Ma lei, quella donna impossibile, non demorse, anzi. Era più
testarda di un mulo e soprattutto era senza cuore. Com’è che non capiva che,
ora che la sua vita era rovinata, voleva solo starsene tutto il giorno su quel
divano a commiserarsi senza nessuno tra i piedi?
Neanche Bear doveva averlo capito, visto che fra pochi
secondi gli sarebbe saltato addosso. Era probabile che quel gran bastardo, e in
questo caso non era un insulto ma una perfetta descrizione dell’animale, avesse
già un metro di lingua fuori pronta per lui.
«Ti ho portato dei sandwich, i pancake con la composta di
mirtilli e ora ti preparo un buon caffè. Sperando di non prendermi il tifo
nella tua cucina. Diavolo, due giorni che non vengo e guarda come hai ridotto
questo posto. Ti mando qualcuno a pulire, più tardi.»
Ray rispose con un altro grugnito, ma più minaccioso.
«Allora, se non vuoi nessuno in giro, dovrò farlo io!» disse
la donna con un sospiro. «E sai che la mia schiena ne soffrirà!»
Credeva forse che la carta della vittima funzionasse ancora?
Anne era più robusta di un toro, altro che mal di schiena! E poi, a lui, non
importava di vivere in un porcile. Non gli importava di vivere tout court.
Un altro grugnito.
«Mr Simpatia, raggiungimi in cucina che ho delle novità su
David.»
David?
Anne aveva davvero delle novità sul piccolo David o era solo
un modo per prenderlo all’amo?
Intanto, a colpi di muso, Bear aveva spostato uno dei due
cuscini che gli coprivano la faccia ed era passato all’analisi fisico-chimica
dei diversi tipi di odore che si sprigionavano dal suo corpo. Non che ci fosse
da stupirsi, visto come puzzava.
«Vattene, Bear!»
Ma il cane non si mosse, anzi con una delle sue zampone cercò
di richiamare la sua attenzione, o forse di abbracciarlo o, ancora, e ciò sarebbe
stato di gran lunga meglio, di scavare una buca dove seppellirlo, lui e la sua
puzza.
Con l’ennesimo grugnito si girò verso Bear e due occhi
speranzosi lo trafissero. Nonostante la sua esistenza gli apparisse come un
inferno in terra, Ray non poté fare a meno di sorridere e di accarezzare la
grossa testa del cane.
«Sai che sei un rompiscatole peggio di Anne?» disse prima di
alzarsi in piedi con non poche difficoltà.
David.
Prese le stampelle appoggiate al tavolino e se le sistemò
sotto le ascelle preparandosi mentalmente a sopportare il dolore che lo avrebbe
investito a ogni passo.
Seguito da Bear, caracollò sino in cucina, da dove proveniva
l’aroma di un caffè che un tempo gli sarebbe parso squisito. Ora non sprecava
neppure il tempo a prepararselo, il caffè. Versava direttamente dal rubinetto
un po’ di acqua calda in una tazza e, se ne aveva la forza, ci aggiungeva un
cucchiaio di liofilizzato. Altrimenti si accontentava dell’acqua calda.
«Siediti» gli ordinò Anne mentre liberava il tavolo da
piatti e bicchieri sporchi e da un nutrito campionario di scatole di take-away ancora
mezze piene. «Dio, che schifo, Ray! Star male non vuol dire ridursi così!» gli urlò
la donna mettendogli davanti una tazza di caffè e i pancake ai mirtilli che gli
aveva portato dalla tavola calda.
Lui non rispose, ma bevve un sorso di caffè sotto lo sguardo
attento di Bear che gli si era seduto di fianco sperando di certo in qualche
boccone. Fece tre tentativi prima che la voce gli uscisse dalla gola, ma alla
fine ci riuscì. Le parole fluirono lente e roche, come se anche loro fossero a
pezzi.
«Dimmi di David, Anne.»
La donna smise di lavare i piatti e si girò verso di lui.
Era un sorriso quello che aveva sulle labbra? Doveva forse sperare?
«Te lo dirò se prima mi prometti che lascerai che qualcuno dia
una pulita a questo posto. Carmen, magari.»
«Dimmi di David, Anne» ripeté fissando il liquido scuro
nella tazza.
«Prometti?»
Un altro grugnito.
«Lo prenderò per un sì.
Il bambino è uscito dal coma.»
Per poco la tazza non gli cadde di mano. Riuscì a evitare
che si schiantasse sul tavolo, ma non a impedire che il liquido bollente gli
finisse sulla mano, scottandolo.
Ma non sentì dolore.
La gioia per la notizia era così devastante che in quel
momento avrebbe potuto tenere in mano un tizzone acceso e non se ne sarebbe
accorto.
«E… come sta?»
Anne era già accorsa con un panno bagnato e gli tamponava le
dita che grondavano caffè bollente. «Ci manca solo un’ustione al lungo elenco
di infortuni che ti sei procurato!» disse sospirando.
Ray continuò a fissarla fino a quando non ottenne la
risposta che aspettava con tanta apprensione.
«Lui sta meglio, anche se la prognosi non è ancora sciolta. Ma
i medici sperano.»
«Voglio andare a trovarlo.»
«Fino a Denver? Non sei ancora in grado di prendere un aereo.
Puoi chiamare i genitori, invece.»
«Lo sai che non vogliono parlarmi.»
«Vedrai, prima o poi lo faranno.»
***