domenica 26 giugno 2016

LA CABINA


Un breve racconto, che le amiche di Insaziabili Letture mi pubblicarono qualche tempo fa. Ve lo ripropongo oggi, visto che ormai è tempo di avventure romantiche al mare. Enjoy!



La cabina

Se, come dicono le canzonette, le notti d’estate sono fatte per l’amore, che ci faccio chiusa in questa dannata cabina, e per di più da sola?

Aiuto! - urlo, ormai allo stremo delle forze. Be’, forse non proprio allo stremo perché in fondo ci sono cose peggiori che rimanere chiusi in una cabina sulla spiaggia di Forte dei Marmi. Anche se è quasi notte.
Furiosa, guardo il telefonino che è morto, piatto come il mare da cui un paio d’ore fa sono sorta come Venere dalle acque, fiera della mia solitudine e della pace della sera.
Fiera e scema.
Aiuto! - urlo di nuovo, in preda al panico. Niente. Mi inerpico sulla panchetta sperando di vedere qualcosa  attraverso la finestrella, ma non scorgo che un cielo appena sfumato di rosso. Smonto, rischiando di storcermi una caviglia, mi appoggio alla parete e mi lascio scivolare a terra come un’innocente finita in gattabuia, sicura che nessuno pagherà la cauzione.
Forse mi assopisco, perché quando riapro gli occhi sono ormai immersa in un buio universale. La cosa non mi rincuora affatto, soprattutto quando dei passi echeggiano sul viottolo che corre lungo le cabine. Il panico mi schiaccia, la speranza mi dà forza. Mi riarrampico sulla panchetta, prendo fiato e…
“C’è qualcuno là fuori? Ho bisogno di aiuto!”
I passi si fermano. “Ehi! Chi diavolo ha parlato?” chiede lo sconosciuto.
 “Cabina numero 7. Sono rimasta chiusa dentro. Mi aiuti per favore,” vorrei aggiungere o mio eroe, ma mi trattengo.
 Poi penso che il mio eroe potrebbe essere un tipo alla Freddy Kruger, unghioni d’acciaio compresi, quindi chiedo sospettosa: “Ma lei, che ci fa in spiaggia a quest’ora?”
“Ho perso il telefonino,” risponde, “sono venuto a cercarlo.”
La sua voce è troppo vellutata e sexy per essere quella di un serial killer e oltretutto mi pare di conoscerla. In un silenzio irreale sento il mio cuore battere sempre più forte mentre i passi dello sconosciuto si avvicinano.
“Eccomi,” dice, e il suo tono è così basso e imbevuto di testosterone da suscitarmi cattivi pensieri. Ormai è dall’altra parte, sento il suo respiro e vedo la luce di una torcia filtrare attraverso le fessure del legno.
“Grazie,” mormoro.
“Aspetti a ringraziarmi e mi passi la chiave: ce la fa?”
“Ora ci provo.” Mi inerpico di nuovo sulla panchetta, infilo il braccio nella finestrella e la mia mano incontra quella dello sconosciuto. Le sue dita sono calde e forti e mi regalano un fremito di anticipazione. Due per la verità, perché d’un tratto capisco a chi appartiene quella voce sensuale come il peccato: a Mister Paparino dell’anno, naturalmente, il mio quasi vicino d’ombrellone. Uno da urlo, sexy da morire, ma sempre attaccato al telefono a sparar ordini, peggio che in ufficio. Padre divorziato, scommetto, con tata filippina e ragazzino di cinque anni al seguito.
L’altro pomeriggio arriva in spiaggia senza tata. Nel giro di tre minuti si perde il bambino e, quando glielo riporto sano e salvo, mi guarda come fossi la strega di Hansel e Gretel.
La strega. Io.
No.
Imbecille. Lui.
“Presa,” dice.
Non lo degno di risposta, ancora irritata dal ricordo di tanta arroganza. Scendo dalla panchetta mentre lui traffica con la chiave che fa un tock sinistro, ma ancora non gira nella toppa.
“Niente da fare,” dice, “si levi da lì dietro, che do una spallata.”
Una spallata. Presuntuoso macho del cavolo.
“Ok,” ribatto scocciata, mentre provo ad abbassare la maniglia dall’interno – perché non si sa mai - e lo faccio proprio mentre lui si abbatte con il suo metro e ottantacinque contro la porta. Che docile docile si spalanca, come fossimo in un cartone di gatto Silvestro. Nonostante il buio, vedo brillare la sorpresa nei suoi occhi blu prima di venir investita da quella solida massa di muscoli. Pfff, i polmoni mi si svuotano, poi recupero un po’ d’aria e urlo. Urla anche lui, lancia il più classico degli improperi e rovina a terra, con me avvinghiata a lui come una porno star. Il tutto mentre la dannata porta sbatte e risbatte e con un ultimo, sinistro clack si richiude.
Gli occhi del mio eroe, più scuri di un mare in tempesta, mi scrutano infuriati e increduli.
Forse vuole picchiarmi.
Mi sottraggo a fatica al suo abbraccio e recupero, con la posizione di bipede eretto, anche un po’ di dignità. Lui, invece, rimane a terra in un silenzio allibito, agguanta la torcia finita in un angolo, me la punta contro e mi fissa. Con inutile testardaggine, afferro la maniglia della porta pregando che il clack che ancora mi risuona in testa sia solo uno scherzo di cattivo gusto; la tiro verso di me, la spingo, la alzo, la abbasso, la imploro, persino, ma non succede nulla. La porta rimane chiusa e il paparino dell’anno continua a fissarmi come fossi un caso disperato.
Cavolo, io sono un caso disperato.
“Il cellulare… non è che per caso l’abbia già recuperato?” chiedo girandomi di nuovo verso di lui alquanto seccata, perché, accidenti, come si fa a perdere il cellulare?
Domanda sbagliata. Lui contrae la mascella e stringe le mani a pugno, non certo in segno d’amicizia.
“Provi a indovinare!” sibila tra i denti.
No, non l’ha recuperato.
Mi accascio di nuovo, contro la porta, di fronte a lui.
Ora siamo in due prigionieri della dannata cabina, senza uno schifo di telefonino. Soli, nella quiete della notte, con l’aria che profuma di mare e un angolo di stelle incastonato nella finestrella là in alto. Sembra il cielo magico di un quadro di Van Gogh o di una canzone degli anni ’60 di Peppino Di Capri.
“Dannato cellulare, quando occorre non c’è mai,” dico ridacchiando come fossimo a un party, forse per strappargli un sorriso, forse per salvarmi la vita.
Lui prima mi guarda come fossi una calamità naturale, poi si massaggia il collo e infine - yesss - sorride.
Grazie-signore-grazie!
“Chissà, dopotutto non è affatto detto che questa notte ci occorra, il telefonino…” mormora con quella sua voce tanto sexy che dovrebbero vietarla ai minori.
La mia attenzione si concentra sulle sue labbra. Anche quelle da vietare ai minori.
“Piacere, sono Marco,” dice appoggiando la torcia sul pavimento e allungando il braccio destro verso di me. Io mi sporgo in avanti e allungo il mio.
“Piacere, Lil…”
“Lilliana, lo so. Sei la mia vicina d’ombrellone, quella che non prende la tintarella e che legge tutti quei libri d’amore. E che, grazie al Cielo, mi ha ritrovato il figlio un paio di giorni fa. Credo di non averti neppure ringraziata, ma ero troppo terrorizzato persino per dire un grazie. Ti ringrazio adesso. Non immagini quanto.”
Dunque, sa chi sono! Non mi ha scambiata per la strega cattiva! Un sorriso di quelli imbecilli mi compare sulle labbra e sento le guance prendere fuoco non appena le nostre mani si toccano. La sua presa è salda e delicata e mi fa correre un brivido impertinente lungo la schiena. Fa correre più veloce anche il cuore, se è per quello, e pure la fantasia.
“Anch’io so chi sei,” dico. “Sei quello che, oltre a perdersi il figlio, gira sempre con il cellulare attaccato all’orecchio. Sempre, tranne questa sera, naturalmente…”
“Naturalmente,” ripete, e il sorriso gli sale sino agli occhi.
Nel buio rotto solo dal fascio di luce della sua torcia, ci fissiamo in silenzio per qualche istante. Poi, insieme, scoppiamo a ridere e la nostra risata, trasportata dal vento, forse raggiunge il mare e cavalca su un’onda sino una spiaggia lontana.
Come in una canzone degli anni ’60.
La morale…
Chi ha detto che deve esistere per forza una morale? Ma un lieto fine c’è, eccome,  perché, da quella notte di ormai due anni fa, la numero 7 è diventata la nostra cabina e guai se qualche mal capitato ce la tocca.



Nessun commento:

Posta un commento