Un breve racconto, che le amiche di Insaziabili Letture mi pubblicarono qualche tempo fa. Ve lo ripropongo oggi, visto che ormai è tempo di avventure romantiche al mare. Enjoy!
La cabina
Se, come dicono le canzonette, le notti d’estate sono
fatte per l’amore, che ci faccio chiusa in questa dannata cabina, e per di più
da sola?
Aiuto! -
urlo, ormai allo stremo delle forze. Be’, forse non proprio allo stremo perché
in fondo ci sono cose peggiori che rimanere chiusi in una cabina sulla spiaggia
di Forte dei Marmi. Anche se è quasi notte.
Furiosa, guardo il telefonino
che è morto, piatto come il mare da cui un paio d’ore fa sono sorta come Venere
dalle acque, fiera della mia solitudine e della pace della sera.
Fiera e scema.
Aiuto! - urlo
di nuovo, in preda al panico. Niente. Mi inerpico sulla panchetta sperando di
vedere qualcosa attraverso la
finestrella, ma non scorgo che un cielo appena sfumato di rosso. Smonto,
rischiando di storcermi una caviglia, mi appoggio alla parete e mi lascio
scivolare a terra come un’innocente finita in gattabuia, sicura che nessuno
pagherà la cauzione.
Forse mi assopisco, perché
quando riapro gli occhi sono ormai immersa in un buio universale. La cosa non
mi rincuora affatto, soprattutto quando dei passi echeggiano sul viottolo che
corre lungo le cabine. Il panico mi schiaccia, la speranza mi dà forza. Mi riarrampico
sulla panchetta, prendo fiato e…
“C’è qualcuno là fuori? Ho
bisogno di aiuto!”
I passi si fermano. “Ehi! Chi
diavolo ha parlato?” chiede lo sconosciuto.
“Cabina numero 7. Sono rimasta chiusa dentro.
Mi aiuti per favore,” vorrei aggiungere o
mio eroe, ma mi trattengo.
Poi penso che il mio eroe potrebbe essere un
tipo alla Freddy Kruger, unghioni d’acciaio compresi, quindi chiedo sospettosa:
“Ma lei, che ci fa in spiaggia a quest’ora?”
“Ho perso il telefonino,”
risponde, “sono venuto a cercarlo.”
La sua voce è troppo
vellutata e sexy per essere quella di un serial killer e oltretutto mi pare di
conoscerla. In un silenzio irreale sento il mio cuore battere sempre più forte
mentre i passi dello sconosciuto si avvicinano.
“Eccomi,” dice, e il suo tono
è così basso e imbevuto di testosterone da suscitarmi cattivi pensieri. Ormai è
dall’altra parte, sento il suo respiro e vedo la luce di una torcia filtrare
attraverso le fessure del legno.
“Grazie,” mormoro.
“Grazie,” mormoro.
“Aspetti a ringraziarmi e mi
passi la chiave: ce la fa?”
“Ora ci provo.” Mi inerpico
di nuovo sulla panchetta, infilo il braccio nella finestrella e la mia mano
incontra quella dello sconosciuto. Le sue dita sono calde e forti e mi regalano
un fremito di anticipazione. Due per la verità, perché d’un tratto capisco a
chi appartiene quella voce sensuale come il peccato: a Mister Paparino
dell’anno, naturalmente, il mio quasi vicino d’ombrellone. Uno da urlo, sexy da
morire, ma sempre attaccato al telefono a sparar ordini, peggio che in ufficio.
Padre divorziato, scommetto, con tata filippina e ragazzino di cinque anni al
seguito.
L’altro pomeriggio arriva in
spiaggia senza tata. Nel giro di tre minuti si perde il bambino e, quando
glielo riporto sano e salvo, mi guarda come fossi la strega di Hansel e Gretel.
La strega. Io.
No.
Imbecille. Lui.
“Presa,” dice.
Non lo degno di risposta,
ancora irritata dal ricordo di tanta arroganza. Scendo dalla panchetta mentre
lui traffica con la chiave che fa un tock
sinistro, ma ancora non gira nella toppa.
“Niente da fare,” dice, “si
levi da lì dietro, che do una spallata.”
Una spallata. Presuntuoso macho del cavolo.
“Ok,” ribatto scocciata,
mentre provo ad abbassare la maniglia dall’interno – perché non si sa mai - e
lo faccio proprio mentre lui si abbatte con il suo metro e ottantacinque contro
la porta. Che docile docile si spalanca, come fossimo in un cartone di gatto
Silvestro. Nonostante il buio, vedo brillare la sorpresa nei suoi occhi blu prima
di venir investita da quella solida massa di muscoli. Pfff, i polmoni mi si svuotano, poi recupero un po’ d’aria e urlo.
Urla anche lui, lancia il più classico degli improperi e rovina a terra, con me
avvinghiata a lui come una porno star. Il tutto mentre la dannata porta sbatte
e risbatte e con un ultimo, sinistro clack
si richiude.
Gli occhi del mio eroe, più
scuri di un mare in tempesta, mi scrutano infuriati e increduli.
Forse vuole picchiarmi.
Forse vuole picchiarmi.
Mi sottraggo a fatica al suo abbraccio
e recupero, con la posizione di bipede eretto, anche un po’ di dignità. Lui,
invece, rimane a terra in un silenzio allibito, agguanta la torcia finita in un
angolo, me la punta contro e mi fissa. Con inutile testardaggine, afferro la
maniglia della porta pregando che il clack che ancora mi risuona in testa sia solo
uno scherzo di cattivo gusto; la tiro verso di me, la spingo, la alzo, la
abbasso, la imploro, persino, ma non succede nulla. La porta rimane chiusa e il
paparino dell’anno continua a fissarmi come fossi un caso disperato.
Cavolo, io sono un caso disperato.
“Il cellulare… non è che per
caso l’abbia già recuperato?” chiedo girandomi di nuovo verso di lui alquanto seccata,
perché, accidenti, come si fa a perdere il cellulare?
Domanda sbagliata. Lui contrae
la mascella e stringe le mani a pugno, non certo in segno d’amicizia.
“Provi a indovinare!” sibila
tra i denti.
No, non l’ha recuperato.
Mi accascio di nuovo, contro
la porta, di fronte a lui.
Ora siamo in due prigionieri della dannata cabina, senza uno schifo di telefonino. Soli, nella quiete della notte, con l’aria che profuma di mare e un angolo di stelle incastonato nella finestrella là in alto. Sembra il cielo magico di un quadro di Van Gogh o di una canzone degli anni ’60 di Peppino Di Capri.
Ora siamo in due prigionieri della dannata cabina, senza uno schifo di telefonino. Soli, nella quiete della notte, con l’aria che profuma di mare e un angolo di stelle incastonato nella finestrella là in alto. Sembra il cielo magico di un quadro di Van Gogh o di una canzone degli anni ’60 di Peppino Di Capri.
“Dannato cellulare, quando
occorre non c’è mai,” dico ridacchiando come fossimo a un party, forse per strappargli
un sorriso, forse per salvarmi la vita.
Lui prima mi guarda come
fossi una calamità naturale, poi si massaggia il collo e infine - yesss - sorride.
Grazie-signore-grazie!
“Chissà, dopotutto non è affatto
detto che questa notte ci occorra, il telefonino…” mormora con quella sua voce tanto
sexy che dovrebbero vietarla ai minori.
La mia attenzione si
concentra sulle sue labbra. Anche quelle da vietare ai minori.
“Piacere, sono Marco,” dice appoggiando
la torcia sul pavimento e allungando il braccio destro verso di me. Io mi
sporgo in avanti e allungo il mio.
“Piacere, Lil…”
“Lilliana, lo so. Sei la mia vicina d’ombrellone, quella che non prende la tintarella e che legge tutti quei libri d’amore. E che, grazie al Cielo, mi ha ritrovato il figlio un paio di giorni fa. Credo di non averti neppure ringraziata, ma ero troppo terrorizzato persino per dire un grazie. Ti ringrazio adesso. Non immagini quanto.”
“Lilliana, lo so. Sei la mia vicina d’ombrellone, quella che non prende la tintarella e che legge tutti quei libri d’amore. E che, grazie al Cielo, mi ha ritrovato il figlio un paio di giorni fa. Credo di non averti neppure ringraziata, ma ero troppo terrorizzato persino per dire un grazie. Ti ringrazio adesso. Non immagini quanto.”
Dunque, sa chi sono! Non mi
ha scambiata per la strega cattiva! Un sorriso di quelli imbecilli mi compare
sulle labbra e sento le guance prendere fuoco non appena le nostre mani si
toccano. La sua presa è salda e delicata e mi fa correre un brivido
impertinente lungo la schiena. Fa correre più veloce anche il cuore, se è per
quello, e pure la fantasia.
“Anch’io so chi sei,” dico. “Sei
quello che, oltre a perdersi il figlio, gira sempre con il cellulare attaccato
all’orecchio. Sempre, tranne questa sera,
naturalmente…”
“Naturalmente,” ripete, e il
sorriso gli sale sino agli occhi.
Nel buio rotto solo dal
fascio di luce della sua torcia, ci fissiamo in silenzio per qualche istante. Poi,
insieme, scoppiamo a ridere e la nostra risata, trasportata dal vento, forse raggiunge
il mare e cavalca su un’onda sino una spiaggia lontana.
Come in una canzone degli anni ’60.
Come in una canzone degli anni ’60.
La morale…
Chi ha detto che deve
esistere per forza una morale? Ma un lieto fine c’è, eccome, perché, da quella notte di ormai due anni fa,
la numero 7 è diventata la nostra cabina
e guai se qualche mal capitato ce la tocca.
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